Eutanasia: riflessioni.
Il concetto e significati:
Problema delicato è gravissimo nel caso dell’eutanasia. Frequentemente si discute su concetti diversi.
Vediamo il concetto sistematicamente.
Vorrei soffermarmi sull’eutanasia in quanto atto umano, perché è questo il punto di vista che interessa veramente dal punto di vista etico (e in parte anche da quello giuridico).
Si tratta di analizzare un comportamento umano in quanto umano, in quanto il soggetto agisce coscentemente e liberamente, e pertanto è moralmente responsabile dell’atto stesso.
È interessante applicare l’analisi tipica di un atto umano al concetto di eutanasia in quanto ‘atto umano’ esercitato dal medico, dall’infermiere o da quanti altri praticano l’eutanasia: essi lo compiono coscientemente e liberamente.
Analizziamo dunque quali sono le componenti dell’atto umano.
In ogni atto umano c’è un soggetto (la persona capace in quel momento di agire con coscienza
e libertà). Il soggetto viene attirato da un fine (o scopo) che vuole raggiungere perché appare importante. Ora, il soggetto per raggiungere quel fine dal quale viene attratto si rende conto che deve utilizzare un determinato mezzo o, almeno, può utilizzarlo. Il mezzo diventa così l’oggetto del suo atto in vista del fine. Compare davanti a lui la possibilità dell’oggetto come mezzo per raggiungere il fine, attraverso l’azione che realizza l’atto. La volontà del soggetto vuole dunque sia il fine che l’oggetto (mezzo). Questa dinamica è sempre presente in ogni atto umano, anche nell’atto umano che noi chiamiamo eutanasia, intesa come azione del procurare la morte al fine di evitare il dolore.
Con questi presupposti possiamo esaminare la definizione tratta dalla Dichiarazione della Congregazione della Dottrina della Fede del 1980 sull’eutanasia, dalla quale si evince che eutanasia è “ogni azione o omissione che, di natura sua o nelle intenzioni, procura la morte al fine di eliminare ogni dolore”.
Se si analizza questa definizione in rapporto alla dinamica dell’atto umano appena presentato, vediamo che vi è un fine chiaro: eliminare ogni dolore.
Se un ladro ammazza per rubare i soldi, non si parlerà di eutanasia; così pure se si ammazza per vendetta o per odio, non si usa questo termine.
Lo scopo, il fine deve essere quello di favorire il bene della persona che viene uccisa. Nella definizione si dice “ogni dolore”, in tal senso si potrebbe pensare ad un’estensione del concetto di dolore: il dolore non solo fisico, ma anche quello morale, psicologico; e così pure si può pensare alla persona che, per qualunque motivo, non vuole più vivere e chiede di essere uccisa.
Chi afferma: “io voglio aiutarlo a non soffrire più”, afferma il suo fine. Ma qual è l’oggetto del suo atto?
Cosa fa il soggetto per raggiungere quel fine?
Non è lenire le sofferenze, non è accompagnarlo umanamente, ma è procurare la sua morte.
Ora, l’azione che ha come oggetto il procurare la morte, può essere compiuta come azione o come omissione, ed in tal modo entra in gioco la distinzione tra eutanasia attiva e passiva. In entrambi i casi, sia con l’azione (eutanasia attiva) sia con l’omissione (eutanasia passiva) si tratta di eutanasia, perché si procura la morte al fine di evitare il dolore.
Non va dunque confusa l’eutanasia passiva con il comportamento del medico che omette di porre delle azioni che sono del tutto inutili o addirittura dannose per il paziente.
In questo caso il medico dice a se stesso: “Non posso fare più niente se non accanirmi sul malato e farlo soffrire di più; siccome non ho il diritto di farlo soffrire di più, mi astengo”, sopravvenendo in tal modo il giudice non può scrutare l’intimità di colui che ha agito, anche se appare evidente che chi agisce in modo incosciente (ad esempio il sonnambulo che strangola la vicina di casa), dal giudice non può essere condannato. Il fatto che sia ‘atto cosciente e libero’ con la dinamica propria dell’atto umano riguarda dunque sia il giudice sia la legge (quando essa regoli questi comportamenti), sia la comunità sociale in generale.
Un atto uccisivo:
Un’ultima riflessione a proposito del concetto di eutanasia: credo sia interessante notare che si tratta di una scelta di morte. Alcuni autori parlano di scelta tra due morti: l’azione consisterebbe nel cambiare il tipo di morte, procurando una morte pacifica al posto di una morte terribile.
In realtà, se si analizza a fondo questo comportamento, si nota che si tratta di procurare questa morte per evitare quella; anziché una morte di sofferenza, l’altra più serena. Ma l’atto di morire è un atto istantaneo. Quando si usa l’espressione ‘mezzo morto’ si sta parlando di un individuo vivente. La morte o c’è o non c’è, o meglio, esiste la persona viva o non esiste, o essa è vivente o non è più vivente. Quando si pensa a procurare la morte, la scelta è tra far morire o lasciare vivere sino almomento in cui il soggetto non vive più. È una scelta che ha come oggetto il non fare più vivere questa persona perché si preferisce che muoia al fatto che essa continui a vivere soffrendo. Dunque in realtà è una decisione libera per la morte, contro la vita: si procura la morte per evitare ogni dolore. Quello che si evita non è una morte diversa, si evita invece la sofferenza che il soggetto sperimenta fino alla morte; e la si evita causando la sua morte.
Eutanasia e dignità umana:
Ci s’interroga allora se veramente l’eutanasia come definita in precedenza, risponda alla dignità della persona, e se sia davvero ‘morte degna’ il procurare la morte o il chiedere questa morte da parte del soggetto-paziente. Si tende a presentare l’eutanasia come morte degna in quanto espressione di una scelta libera.
Sarebbe il fatto che la morte venga procurata come opzione libera dell’individuo a configurare l’eutanasia come qualcosa di degno e rispettabile.
In realtà, bisogna ricordare che non è la libertà che costituisce la dignità dei nostri comportamenti, anche se oggi, nella nostra cultura sembrerebbe che sia così: l’agire liberamente viene identificato con l’agire con dignità. Non è però la libertà che dà la dignità al comportamento umano. E’ vero sì che l’atto può essere degno della persona solo se è un atto umano, cioè libero.
Ma non sempre è degno ciò che è libero; vi sono tanti comportamenti che sono liberi e non sono degni della persona, -né della persona su cui si agisce, né della persona che agisce-. Esistono azioni libere indegne della persona umana. Un esempio: ci sono due uomini che compiono un atto di stupro nei confronti di una donna, comportamento indegno per la donna ma anche dell’uomo. Uno dei due è malato mentale mentre l’altro ha compiuto quell’azione liberamente, con coscienza e piena autonomia. Quale dei due atti si ritiene sia più indegno?
Ovviamente il secondo, proprio perché il soggetto in questione è più libero. La libertà quindi, non dà la dignità alle proprie azioni. Dà sì la possibilità di agire in modo degno o indegno. Ma la dignità o indegnità di un atto libero non dipende dal fatto che sia libero, ma dalla corrispondenza di quella scelta libera alla dignità della persone altrui e della propria persona. Ecco perché offendere liberamente l’altro è un comportamento indegno dell’altro e di me.
Dunque, l’equivalenza ‘morte degna’= eutanasia, perché scelta libera, è falsa. Infatti, se un soggetto chiedesse insistentemente di essere torturato, questa opzione non sarebbe opzione degna, né rispetterebbe la sua dignità, anche se la richiesta fosse del tutto libera. Vi sono molti mascheramenti in tal senso, soprattutto se si rispondesse al soggetto in modo affermativo: “Sì, ti aiuto”. In tal modo viene compiuta un’azione che rispetta la sua libertà ma non la sua dignità.
La vita è un bene indisponibile non solo riguardo alla vita altrui, ma prima di tutto riguardo alla propria vita, perché essa non è un ‘qualcosa’. “La vita non è un oggetto. Essa è, come afferma Aristotele, ‘l’essere di ciò che vive’. Di per sé non esiste la vita; esiste l’essere vivente. Questo significa che il soggetto non possiede una vita di cui poter disporre. Dunque togliergli la vita è annullarlo come soggetto. Ora se il soggetto crede di avere una dignità in quanto persona e desidera che gli altri la rispettino, questo è perché ‘egli è degno’ e non perché gli altri debbono rispettare una dignità che non c’è: sono degno di rispetto in quanto persona e perciò esigo dagli altri rispetto. E allora se sono degno, sono degno anche per me stesso e quindi mi devo rispettare.
Un’opzione volontaria, cosciente, libera di suicidio, di eutanasia, è un insulto alla propria dignità. Pertanto, l’eutanasia, nel senso attuale dato alla parola, è un insulto alla dignità della persona; non è mai morte degna anche se la persona muore in pace, tranquillamente, senza sofferenza.
È necessario fare un richiamo al fine di evitare di cadere in un’antropologia dualista, spesso presente in coloro che difendono l’eutanasia. Tipica è infatti l’espressione: “Ormai è solamente una vita biologica, non c’è più vita personale, è un vegetale”. E’ anche frequente, nella stessa linea, la distinzione radicale tra “vita biologica” e “vita biografica”, considerando la seconda come l’unica che dia senso alla esistenza della persona, e la prima come qualcosa di sub-umano. In realtà anche una persona che si trova in ‘in stato vegetativo persistente’ è persona degna di rispetto; altrimenti non vi sarebbe la necessità di chiedersi se si deve o meno procurare la sua morte degna. La persona è un’unità: non c’è mai un corpo che sia solo una specie di vegetale, un fenomeno biologico
vivente, senza che vi sia persona, altrimenti si cade in una visione dualistica, ormai sorpassata e devastata dalla critica filosofica. In questo senso bisogna affermare che la vita biologica di un individuo umano è sempre vita umana, e forma parte sempre della sua vita biografica.
Eutanasia e discriminazione:
La legalizzazione o depenalizzazione dell’eutanasia opera poi una autentica discriminazione tra le persone, classificandole come vite degne o non degne di essere vissute. Se si approva una legge che permette la eutanasia, è necessario operare un discernimento da parte della società.
Infatti, non esiste proposta di legge sull’eutanasia che non faccia queste distinzioni. La legge olandese, per esempio, pone dei criteri di questo tipo: la persona deve soffrire fisicamente, in modo angoscioso e permanente, deve chiedere la morte autonomamente, ripetutamente, insistentemente, ecc. Ed è il medico che deve valutare la situazione.
Se si da il caso di un giovane di trent’anni che non soffre fisicamente ma dice ripetutamente “sono disperato, non voglio più vivere, uccidetemi”, la legge lo proibisce. Mentre per l’anziano si compiono le condizioni ed egli è un candidato perfetto. In fondo, la legge ha stabilito che la vita del primo vale la pena e deve essere protetta anche contro la sua volontà, mentre la vita del secondo non vale più la pena e può dunque essere eliminata secondo la sua volontà.
Questa discriminazione tra vite più degne o meno degne significa poggiare il piede su uno scivolo veramente pericoloso per la convivenza civile. E gli abusi non mancano già oggi. E’ emblematico a questo proposito il caso di Mary Hier. Questa giovane di ventidue anni non era malata terminale, né soffriva fisicamente. Solamente non poteva ricevere il cibo attraverso l’esofago, e dunque riceveva da anni l’alimentazione attraverso un tubo gastrico. Un giorno un piccolo incidente fece sì che il tubo saltasse, e quando si tentò di sostituirlo, i medici dissero che ciò non favoriva il suo bene, e una corte del Massachusets decise che si trattava di una “procedura altamente invasiva e rischiosa”. Curiosamente, lo stesso giornale di Boston che dava questa notizia raccontava che un’altra donna aveva ricevuto una “chirurgia di piccola entità per correggere un problema nutritivo”, cioè le si era introdotto un tubo gastrico. Non c’era differenza tra la situazione di questa e quella di Mary Hier. Ma c’era un’altra differenza: Mary era gravemente malata di mente, mentre l’altra donna si chiamava Rose Fitzgerald Kennedy (la madre dell’ex-presidente americano).
Ma non si tratta solamente del problema di eventuali abusi o della diffusione di una mentalità discriminatoria. C’è anche, nella pratica e nella eventuale legalizzazione dell’eutanasia, una vera e propria offesa alla dignità della persona che viene considerata “idonea” per la provocazione della sua morte. Bisogna tenere presente che la richiesta di eutanasia è una richiesta di annullamento volontario della propria esistenza, del propio io. Come dicevo prima, non esiste “la vita” come qualcosa di separato dall’io personale. Dire che “la mia vita non ha più senso” è dire che “io non ho più senso”. Perciò, una persona che davanti al dolore e alla prossimità della morte non riesce ad accettare la propria esistenza nel tempo che può restargli come persona viva, e che decide la propria morte, è una persona che sta soffrendo una tremenda sconfitta, una “sconfitta esistenziale”. Se io veramente gli voglio bene tenterò di aiutarla a vincere quella ultima battaglia della sua vita. Se non ci riuscirò la rispetterò lo stesso, offrendogli la mia comprensione. Ma non potrò accettare, se me lo chiedesse, di porre fine alla sua esistenza, collaborando in quel modo alla tragedia della sua sconfitta.
Dirgli di sì sarebbe dirgli semplicemente: “sì, hai ragione; la tua vita non ha più senso, non vale più; tu stesso dunque non vali più; sono d’accordo con te: è meglio che tu muoia, che tu non ci sia più”. Il medico o il parente che invece si nega ad accogliere quella richiesta, dice con ciò al paziente: “Non è vero che la tua vita non ha più senso; tu non riesci a scoprirlo; e ti capisco. Ma la tua vita, anche in queste condizioni, ha un senso. Perché tu hai un valore che non dipende dalle tue condizioni: tu vali perché sei tu! Io continuerò ad esserti vicino e ad aiutarti; e continuerò a tentare di aiutarti perché tu riesca a ritrovare il tuo senso e il tuo valore, fino all’ultimo momento. Perché ti
amo".
Solo questo atteggiamento di fondo corrisponde alla dignità della persona. Il contrario, l’attuazione di un atto uccisivo nei confronti di una persona sofferente, anche se motivata dalla compassione, è un insulto alla sua dignità, come anche a quella di chi agisce in questo modo. E in questo senso, “eutanasia” e “buona morte” non solo non coincidono, ma sono direttamente contrarie.