Quel mondo smarrito da cui vengono gli Hobbit

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Quel mondo smarrito da cui vengono gli Hobbit

Messaggiodi Aragorn il 18 mag 2008, 14:42

È un mezz’uomo tutto d’un pezzo, lo Hobbit. L’aria di campagna lo rende saldo, casto e onesto, pieno di salute fisica e morale. Lo riconosceresti tra mille per il suo portamento, la camminata particolare, l’espressione fiera e modesta del volto. Tutta la sua virtù è nel suo campo.

È abbastanza cauto da saper fronteggiare le avversità della natura, i pericoli non lo abbattono, ragiona con il cuore senza perdere la testa. Chiuso di carattere, impulsivo ma realista, la sua diffidenza verso le novità è pari solo alla sua testardaggine. Per conservare le sue ricchezze deve rimanere fedele a se stesso. Nella Contea ha piantato un albero che rimarrà attaccato al suolo e, quando lui sarà morto, il suo sangue continuerà a scorrere nelle radici della pianta influenzando i caratteri permanenti della propria razza. I piedi grandi e pelosi. Le braccia corte e generose. Né troppo nano né troppo umano.

Passano gli anni e la casa costruita con tanta fatica diventa un luogo di memorie, affetti e buoni propositi. La dimora fonte di serenità, centro della famiglia e pilastro del buon vicinato. Un modello di “società benevolente”, conviviale, democratica e in apparenza non repressiva, in cui il sistema della coltivazione patriarcale ha generato una solida morale pubblica condivisa. La ‘casta’ degli hobbit è un gruppo etnico compatto, un insieme di persone fortemente unite e consapevoli di essere discendenti della stessa stirpe. Mescolarsi con gli sconosciuti sarebbe un errore. Il pregiudizio è utile e rende felici nelle campagne separate dal mondo.

Nella Contea viene scavato il confine con i paesi lontani, sfruttando i boschi e le montagne come un sistema difensivo naturale in grado di preservare intatte le istituzioni che la comunità si è data. Qui cessa l’umanità degli Hobbit, “alla frontiera della tribù, del gruppo linguistico, talvolta perfino del villaggio”, dice Lévi-Strauss, lo straniero diventa un fantasma, un’apparizione da accogliere guardinghi, in un misto di riservatezza e prudenza, ospitalità virtuosa e risolutezza guerriera.

Gli Hobbit sono piuttosto inclini alla poesia. I proverbi, le forme di augurio, i brindisi, gli indovinelli e le filastrocche che troviamo nel Signore degli Anelli sono il fuoco attorno a cui si riscalda la cultura contadina. Si balla, si suona e si canta ricordando chi è partito, chi ha combattuto ed è morto, ed è una danza d’amore che prende alle viscere, una marcia funebre per niente macabra, una festa dove prendere in giro la bella moglie dell’amico rimasta sola a presidiare il focolare. Le montagne risuonano di melodie materne e si raccontano favole su mondi primitivi e terribili, pieni di maghi e demoni, principesse rapite e piccoli eroi. Come i versi di una antica canzone della Laberia, una regione dei Balcani: “Canterò una canzone io stesso / che sia una canzone di valorosi”.

Di notte, solo ai piedi di una roccia, Frodo guarda le stelle e il suo animo si riempie di nostalgia. Alla luce bianca della luna rivede con angoscia gli amici lontani e il suo pensiero torna alle feste – quando eravamo ancora tutti insieme e la nostra missione sembrava meno ardua e il destino un po’ più giusto. Di fronte a lui avanzano gli spiriti-guida che raccontano dei tempi cupi e delle spade tinte di sangue. Werther legge a Lotte questo passo dei Poemi di Ossian: “Oh, come eri bello tra mille sulla collina. Egli era terribile nella battaglia. Rispondetemi! Udite la mia voce, carissimi! Ahi, sono muti! Muti per sempre! Freddo come la terra è il loro petto!”. Frodo è il poeta del popolo, una guida per la Terra di Mezzo.

Ma un giorno accade un imprevisto. L’Anello porta la guerra. Bisogna partire per difendere la Contea. L’Hobbit è costretto a mettersi in viaggio e la sua diffidenza verso il resto del mondo si dilata enormemente. Quando entra nella Città degli uomini la scopre piena di genti e colori diversi. L’influenza straniera è malvagia, oppressiva, tirannica. La presenza umana corrompe le libertà delle campagne. Peggio degli uomini fanno solo gli orchi, la civiltà delle macchine messa in piedi da Saruman per avvelenare lo spirito della Contea. La ragione utilitaria di Sauron minaccia la civiltà agreste. Quest’ultima si difende combattendo contro la ‘decadenza’ della modernità.

Quello degli Hobbit è un idillio. Il vagheggiamento della campagna felice dove rifugiarsi per sfuggire agli intrighi della città senza radici. Questo genere letterario si è sviluppato tra la fine del XVIII e il XIX secolo ed è servito a fondare le parole chiave del mondo moderno, Nazione e Identità. Il richiamo alla Contea è una reazione all’universalismo e al cosmopolitismo dell’Età della Ragione. Tolkien era un conservatore moderato, un tranquillo professore universitario innamorato dello studio e della scrittura che, avendo sperimentato il prezzo della guerra, decise di opporsi a ogni totalitarismo. Espressione di una classe sociale dai valori declinanti, l’autore elabora una visione del mondo che rifiuta gli assoluti laici, esalta la religione solidale e respinge il nazionalismo più esasperato. “Sono affezionato all’Europa Nord Occidentale,” diceva Tolkien, “come lo si dovrebbe essere alla Patria”. Gli hobbit non sono dei guerrieri spartani ma Frodo saprebbe farsi rispettare quanto un Leonida.

Il conservatorismo di Tolkien anticipa il localismo contemporaneo, è una mitologia verde dai tratti regressivi e libertari, vagamente anarchica e campanilistica. Un ideale naturalistico un po’ paradossale se consideriamo che questa critica del progresso tecnologico giungeva dritto dal cuore della Rivoluzione industriale. Tolkien scrisse un romanzo ambientalista battendosi contro il positivismo materialistico dell’Occidente: le certezze del socialismo e del capitalismo invece di emancipare l’uomo lo avevano alienato e imprigionato. La sua critica del modernismo è spietata.

Nel saggio England, Home and Beauty, apparso nel 1984, Fraser Harrison ha scritto che è facile prendersi gioco della stravaganza della ‘nostalgia rurale’, ma è anche di vitale importanza riconoscere che questa ricerca delle campagne è espressione di “un sano desiderio di ritrovare un qualche significato e sollievo in un mondo che sembra sempre più dedito a un irresponsabile annichilimento”. Tolkien amava la Natura e il Signore degli Anelli contiene centinaia di nuove razze e specie animali, una flora e una fauna fantastica illimitata. Quando gli viene chiesto “Tu da che parte stai?” tra gli orchi e gli uomini, il vecchissimo Baralbero risponde in modo sconcertante: “Non sto dalla parte di nessuno, perché nessuno sta dalla mia parte, non so se mi capite. Nessuno si dà pena dei boschi, neanche gli Elfi oggigiorno”.

Gli alberi parlanti (e combattenti) sono una delle geniali trovate di Tolkien. L’autore definiva il Signore degli Anelli “il mio albero interiore”, come se scrivendo il libro fosse risalito fino alle origini mitiche della sua genealogia. La Foresta della Terra di Mezzo viene bruciata, segata, annientata, esattamente come accadde ai boschi inglesi dopo la Seconda Guerra mondiale. Nell’opera di Tolkien gli ambientalisti hanno visto una “riconsacrazione della vita e dei lineamenti della vita – terra buona, acqua pura, luce del giorno”, le parole d’ordine che oggi agitano le cosiddette ‘culture locali’. Ma tutto questo è calato in una dark age in cui il progresso e la trasformazione materiale del mondo appaiono avversari irriducibili dell’uomo e della natura.

Secondo il professor Tom Shippey: “non c’è alcuna traccia di una struttura religiosa nelle società del Signore degli Anelli. Eppure c’è una forte sensazione, credo, di osservare quello che in termini cristiani chiameremmo un Mondo Smarrito, un mondo in attesa di essere salvato e che non riesce a conquistare una salvezza duratura con le proprie forze”. L’ultima enciclica di Benedetto XVI, la Spe salvi, ci spiega che la speranza è la virtù che salva gli uomini, e in effetti la parola speranza torna spesso nei dialoghi della Compagnia dell’Anello: gli umani sperano di salvarsi, gli hobbit sperano di completare la loro missione, il popolo elfico spera di invertire il corso della Storia. Tolkien era uno scrittore cattolico che ha ambientato la sua saga in un mondo prebiblico, fatto di angeli e demoni visibili, in cui l’unico Dio non si è ancora manifestato e gli uomini inseguono culti pagani e preistorici. Questa è la speranza che attraversa i difensori del Fosso di Helm, la promessa della Rivelazione.


«Non tutto quel ch'è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch'è forte non s'aggrinza,

le radici profonde non gelano.
Dalle ceneri rinascerà un fuoco,
L'ombra sprigionerà una scintilla;
Nuova sarà la lama ora rotta,
E re quei ch'è senza corona.»

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