"La scatola degli incubi" di Palahniuk

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"La scatola degli incubi" di Palahniuk

Messaggiodi Aragorn il 24 dic 2005, 18:52

Il seguente racconto non è consigliato per un lettore impressionabile. Prima di leggerlo pensateci bene




La sera prima di scomparire, Cassandra si tagliò le ciglia.
Facile come fare i compiti: Cassandra Clark tira fuori un paio di piccole forbici dalla borsetta, forbicine di metallo per unghie, si sporge verso il grande specchio sopra il lavandino del bagno e si guarda. Con gli occhi semichiusi, la bocca aperta come quando si mette il mascara, Cassandra appoggia una mano contro la mensola e con le forbici taglia. Mentre le lunghe ciglia nere cadono, si posano, fluttuano giù per lo scarico del lavandino, lei non si accorge nemmeno della madre riflessa nello specchio, in piedi alle sue spalle.
Quella notte, la signora Clark la sente scendere dal letto quand'è ancora buio. In quell'unica ora senza traffico in strada, Cassandra si dirige nuda in salotto con tutte le luci spente. Si sente il cigolio delle molle dentro il vecchio divano. Il raschio e il "click" di un accendino. Poi un sospiro. Uno sbuffo di fumo.
Quando il sole sorge, Cassandra è ancora lì, seduta nuda sul divano, con le tende aperte e le macchine che passano. Le braccia e le gambe raccolte strette intorno al corpo nell'aria fredda. Tra le dita di una mano stringe la sigaretta, consumata fino al filtro. Accanto a lei, sul divano, la cenere. È sveglia, e fissa lo schermo vuoto del televisore. Forse guarda il suo riflesso nudo sul vetro nero. Ha i capelli aggrovigliati e pieni di nodi, perché ha smesso di pettinarsi. Su una guancia resiste uno sbaffo di rossetto di due giorni prima. L'ombretto le sottolinea le rughette intorno agli occhi. Le ciglia non ci sono più, e gli occhi verdi hanno un'aria spenta e finta perché sembra non sbattere le palpebre.
Sua madre dice: «L'hai sognato?».
La signora Clark le chiede se vuole i toast alla francese. La signora Clark accende il termosifone elettrico e va a prendere l'accappatoio di Cassandra appeso dietro la porta del bagno.
Cassandra si abbraccia nella luce fredda del sole, seduta con le ginocchia raccolte, i seni spinti in alto dalle braccia. Ha fiocchi grigi di cenere di sigaretta disseminati sulle cosce. Fiocchi di cenere grigia impigliati nei peli pubici. I tendini sotto la pelle le contraggono leggermente i piedi. Quei piedi appoggiati fianco a fianco sul pavimento di legno lucido sono l'unica parte di lei che non sia immobile come una statua.
La signora Clark dice: «Ricordi qualcosa?». Sua madre dice: «Avevi indosso il vesti tino nero nuovo...». Dice: «Quello cortissimo».
La signora Clark avvolge la figlia nell'accappatoio, richiudendoglielo con cura intorno al collo. Dice: «È successo in quella galleria d'arte. Quella di fronte alla bottega d'antiquariato».
Cassandra non distoglie lo sguardo dal suo riflesso scuro nel televisore spento. Non sbatte le palpebre, e l'accappatoio scivola giù, riportandole i seni allo scoperto, nel freddo.
E sua madre le chiede che cosa ha visto.
«Non lo so» dice Cassandra. Dice: «Non te lo so dire».
«Aspetta, prendo gli appunti» le dice la signora Clark. Dice: «Credo di aver capito».
E quando esce fuori dalla camera da letto, con in mano la spessa cartellina di appunti marrone, dischiusa quanto basta per poter pescare i fogli al suo interno, quando si guarda intorno nel salotto, Cassandra non c'è più.
In quel momento la signora Clark sta dicendo: «La Scatola degli incubi funziona così: il lato anteriore...».
Ma Cassandra non è in cucina, e nemmeno nel bagno. Cassandra non è nel seminterrato. Casa loro è tutta lì. Non è fuori in giardino, né sulle scale. Sul divano c'è ancora l'accappatoio. La borsetta e le scarpe e la giacca, non è scomparso niente. Sul suo letto c'è ancora la valigia, fatta a metà. Solo Cassandra è scomparsa.
All'inizio, Cassandra disse che non era niente di che. Stando agli appunti, sarebbe stata una vernice in una galleria d'arte.
Lì, negli appunti della signora Clark, c'è scritto: "Timer a intervalli casuali...".
Gli appunti dicono: "L'uomo si è impiccato...".
È cominciato tutto la sera in cui le gallerie inaugurano le nuove esposizioni, giù in centro c'era molta gente, tutti ancora in abiti da ufficio o da scuola, che si tenevano per mano. Coppie medio-giovani con vestiti scuri su cui lo sporco del sedile di un taxi non si vede. Con indosso i gioielli buoni che in metropolitana non si possono portare. I denti bianchi, come se non li avessero mai usati per fare altro che sorridere.
Tutti che si guardavano a vicenda mentre osservavano le opere d'arte, prima di guardarsi a vicenda mentre cenavano.
È tutto scritto negli appunti della signora Clark.
Cassandra aveva indosso il vestitino nero nuovo. Quello cortissimo.
Quella sera aveva voluto un bicchiere alto e sottile di vino bianco, ma solo per tenerlo in mano. Non osava sollevarlo, perché il vestito non aveva le spalline, perciò teneva le braccia abbassate, e i gomiti stretti. Quella postura le faceva contrarre un muscolo nel petto. Un muscolo nuovo che aveva scoperto a scuola, giocando a basket. Le spingeva i seni così in alto che la fessura in mezzo sembrava partire dalla gola.
Il vestito era nero e ornato di paillette nere e perline. Era una crosta di nero ruvido e scintillante che conteneva due seni rosei e carnosi. Un guscio nero e duro.
Le mani, con le unghie laccate che si intrecciavano strette, parevano ammanettate intorno allo stelo del bicchiere. I capelli raccolti e fissati in un'acconciatura alta erano pesanti e folti. Ciocche e riccioli andavano disfacendosi, ciondolavano, ma lei non osava alzare un braccio per sistemarli. Le braccia nude, i capelli che si scioglievano, i tacchi alti che le facevano contrarre i muscoli delle gambe, sollevandole il sedere, spingendolo in fuori alla base di una lunga cerniera.
La sua bocca con il rossetto, perfetta. Niente sbaffi rossi sul bicchiere che non osava sollevare. Gli occhi che apparivano grandissimi sotto le ciglia lunghe. Gli occhi verdi erano l'unica parte di lei che si muovesse nella stanza affollata.
Immobile e sorridente al centro di una galleria d'arte, era l'unica donna che rimanesse impressa nella memoria. Cassandra Clark, quindici anni appena.
Questo succedeva meno di una settimana prima che scomparisse, per l'esattezza tre sere prima.
Ora, seduta nel punto caldo e tra la cenere che Cassandra ha lasciato sul divano, la signora Clark sfoglia la cartella di appunti.
Il proprietario della galleria stava parlando, a loro e alla gente raccolta tutt'intorno.
"Rand" dicono gli appunti. Il proprietario si chiamava Rand.
Il proprietario della galleria gli stava mostrando una scatola sorretta da tre lunghe gambe. Un treppiede. La scatola era nera, grossa come una macchina fotografica antica. Il genere di macchina fotografica dietro cui il fotografo si ingobbiva, coperto da un telo nero per proteggere la lastra di vetro rivestita di prodotti chimici all'interno. Il genere di macchina fotografica epoca Guerra civile che ti scattava una foto con un lampo di polvere pirica. Una nuvoletta di fumo grigio a forma di fungo che ti irritava il naso. Quando entravi nella galleria, ecco a cosa somigliava, quella scatola con tre gambe.
La scatola era dipinta di nero.
«Laccata» disse il proprietario della galleria.
Era laccata di nero, lucidata a cera e disseminata di ditate grigie.
Il proprietario della galleria sorrideva fissando lo scollo teso e senza spalline del vestito di Cassandra. Aveva un paio di baffi sottili, spinzettati e rifilati in maniera perfetta, simili a due sopracciglia. Aveva una barbetta da diavolo che gli appuntiva il mento. Indossava un abito blu da banchiere e un unico orecchino, troppo grosso, troppo irrealmente brillante per non essere un diamante vero.
La scatola era rifinita lungo i bordi con elaborate cornici fatte di rilievi e solchi, che le conferivano un'aria pesante, da cassaforte. Ogni giuntura, nascosta da dettagli e vernice spessa.
«Una sorta di piccola bara» disse qualcuno nella galleria. Un uomo con la coda di cavallo, che masticava chewing gum.
Ai lati della scatola c'erano maniglie d'ottone. Bisognava impugnarle entrambe, disse il proprietario della galleria. Per chiudere un circuito. Se si voleva che la scatola funzionasse correttamente,
bisognava impugnare entrambe le maniglie. Appoggiare un oc-hio sullo spioncino d'ottone davanti. L'occhio sinistro. E guardare dentro.
Quella sera, a turno, un centinaio di persone guardarono, ma non successe niente. Impugnarono le maniglie e guardarono dentro, ma non videro altro che il loro occhio riflesso nel buio al di là della piccola lente di vetro. E non sentirono altro che un rumori-no. Il ticchettìo di un orologio. Lento come il plic... plic... plic... di un rubinetto che perde. Questo minuscolo ticchettìo proveniva dall'interno della scatola dipinta di nero e coperta di ditate.
La scatola era appiccicosa per via dello strato di sporco che l'avvolgeva.
Il proprietario della galleria alzò un dito. Picchiettò una nocca su un fianco della scatola e disse: «Una sorta di timer a intervalli casuali».
Poteva andare avanti a ticchettare ancora per un mese. O per un'ora. Ma nel momento in cui si fosse fermato, ecco: sarebbe stato quello il momento per guardare all'interno.
«Qui» disse il proprietario della galleria, Rand, e battè la punta di un dito su un pulsantino d'ottone, piccolo come il campanello di una porta, sul fianco della scatola.
Impugni le maniglie e aspetti. Quando il ticchettio si arresta, disse, guardi dentro e premi il pulsante.
Su una placchetta d'ottone, una placchetta fissata con viti sulla faccia superiore della scatola, alzandosi in punta di piedi si leggeva "Scatola degli incubi". E il nome "Roland Whittier". Le maniglie d'ottone erano diventate verdi per via di tutte le persone che le avevano strette, aspettando. I loro fiati avevano ossidato il cer-chiolino d'ottone intorno allo spioncino. Sul rivestimento esterno nero, lo sfregamento della loro pelle aveva formato una patina di grasso.
Impugnando le maniglie lo sentivi, dentro. Il ticchettìo. Il timer. Costante e infinito come un battito cardiaco.
Nel momento in cui si fermava, disse Rand, il pulsante innescava all'interno un flash. Un unico lampo di luce.
Che cosa vedesse la gente a quel punto, Rand non lo sapeva. La scatola proveniva dalla bottega d'antiquariato di fronte. Era rimasta lì per nove anni, e non aveva mai smesso di ticchettare. Il proprietario, l'antiquario, diceva sempre ai clienti che forse era rotta. Oppure era uno scherzo.
Per nove anni, la scatola era rimasta a ticchettare su uno scaffale, finché la polvere non l'aveva seppellita. Finché, un bel giorno, il nipote dell'antiquario non l'aveva trovata. Aveva smesso di ticchettare. Il nipote aveva diciannove anni, studiava da avvocato. Un ragazzo senza un pelo sul petto, le ragazzine facevano la spola nel negozio per mangiarselo con gli occhi. Un bravo ragazzo, con una borsa di studio per meriti sportivi, un conto in banca e una macchina sua, un lavoretto estivo nella bottega d'antiquariato, con il compito di spolverare. Quando l'aveva trovata, la scatola taceva, pronta e in attesa. Lui aveva impugnato le maniglie. Premuto il pulsante e guardato dentro.
L'antiquario l'aveva trovato con l'occhio sinistro ancora impolverato. Sbatteva le palpebre. Lo sguardo, perso nel vuoto. Seduto in mezzo a un mucchietto di polvere e mozziconi di sigarette che aveva raccolto con la scopa sul pavimento. Il nipote non era mai più tornato al college. La sua auto era rimasta parcheggiata accanto al marciapiede finché il comune non l'aveva fatta rimuovere. Da allora, ogni giorno, quel ragazzo sedeva in strada davanti alla bottega. Vent'anni, e tutto il giorno seduto sul marciapiede, con la pioggia e con il sole. Gli chiedi qualsiasi cosa, e lui non fa altro che ridere. Quel ragazzo ora dovrebbe fare l'avvocato, esercitare la legge, e invece lo puoi trovare in una topaia d'albergo. In una casa popolare, assistito dalla previdenza sociale per una forma irreversibile di depressione. Non prende neppure farmaci.
Rand, il proprietario della galleria, dice: «Un semplice caso di crollo totale».
Vai a trovare questo ragazzo, e lui passa le giornate seduto sul letto, con gli scarafaggi che gli entrano ed escono dai vestiri, dai pantaloni e dal colletto della camicia. Con le unghie di mani e piedi lunghe e gialle come una matita.
Gli chiedi qualcosa: Come sta? Mangia? Che cosa ha visto? E lui ride, ride e basta. Con gli scarafaggi che gli corrono addosso, protuberanze sotto i vestiti. Nugoli di mosche intorno agli occhi.
Un altro giorno, l'antiquario va ad aprire il suo negozio, e quel cumulo di oggetti impolverati appare diverso. Sembra un altro posto, un posto in cui non è mai stato. E di nuovo la scatola ha
eSso di ticchettare. Quel conto alla rovescia silenzioso. E la Scatola degli incubi è lì, in attesa che lui guardi dentro.
Per tutta la mattinata, l'antiquario non apre la porta d'ingresso della bottega. La gente arriva e riparandosi gli occhi con le mani aopoegiate sul vetro sbircia all'interno. Cercando qualcosa in quella penombra. Il motivo per cui il negozio non è aperto.
In modo analogo, l'antiquario avrebbe potuto sbirciare dentro la scatola. Per vedere il motivo. Per sapere cos'era successo. Che cosa fosse riuscito a prosciugare l'anima di un ragazzo di nemmeno vent'anni, con una vita intera davanti a sé.
Per tutta la mattinata, l'antiquario rimane a fissare la scatola che non ticchetta più.
Invece di guardare dentro, l'antiquario pulisce il gabinetto nel retrobottega. Tira fuori una scatola e ci sale per togliere le mosche secche e morte dai lampadari. Lucida gli ottoni. Ingrassa i legni. Suda così tanto che la camicia bianca inamidata gli si ammorbidi-sce in pieghe. Fa tutte le cose che detesta fare.
La gente del quartiere, i suoi clienti storici, vengono al negozio e trovano la porta chiusa a chiave. Magari bussano. Poi se ne vanno.
La scatola aspetta di mostrargli il perché.
A guardare dentro sarà qualcuno a cui vuole bene.
Per tutta la vita, questo antiquario ha lavorato sodo. Trovato pezzi di valore a prezzi convenienti. Li ha trasportati in bottega ed esposti. Li ha spolverati. In questo posto ha passato buona parte della sua vita, e malgrado ciò continua ad andare alle aste pubbliche a ricomprare le stesse lampade e gli stessi tavolini, per rivenderli una seconda, terza volta. A comprare dai clienti morti per rivendere a quelli vivi. La sua bottega non fa altro che inspirare ed espirare gli stessi oggetti.
La stessa marea di sedie, tavoli, bambole di porcellana. Letti, mobili, soprammobili.
Che vanno e vengono.
Per tutta la mattinata, gli occhi dell'antiquario continuano a Posarsi sulla Scatola degli incubi.
Riordina la contabilità. Passa la giornata a battere le dita sui die-1 asti dell'addizionatrice, facendo quadrare i conti. Sommando e °ntrontando lunghe colonne di numeri. Osservando gli stessi oggetti, gli stessi mobili da toeletta e cappelliere che sulla carta arrivano e ripartono. Si fa un caffè. Poi un altro. Beve caffè finché il barattolo di macinato non è vuoto. Pulisce finché ogni cosa nella bot-■ega non è altro che il suo riflesso su legni lustri e vetri puliti. L'odore di limone e dell'olio di mandorle. L'odore del suo sudore.
La scatola aspetta.
L'antiquario indossa una camicia pulita. Si pettina.
Chiama sua moglie e le dice che da anni nasconde contanti in una scatola di metallo sotto la ruota di scorta nel bagagliaio dell'auto. Quarant'anni prima, quand'è nata la loro figlia, dice l'antiquario alla moglie, lui ha avuto una relazione con una ragazza che veniva in bottega quando lei usciva fuori a pranzo. Le chiede scusa. Le dice di non preparargli la cena. Le dice che la ama.
Accanto al telefono, la scatola attende, e non ticchetta.
Il giorno dopo, la polizia lo trova. Con i conti in ordine. Il negozio tirato a lucido. L'antiquario ha preso una prolunga arancione e l'ha legata all'appendiabiti sul muro del bagno. Nel bagno piastrellato, facile da pulire, si è legato il cavo Il dito si sposta sul pulsante.
E il ticchettio ricomincia, tenue, nel profondo della scatola.
Solo Cassandra vede ciò che accade.
Il timer a intervalli casuali riparte, per un'altra settimana, un altro anno. Un'altra ora.
Il suo viso rimane lì, premuto contro lo spioncino, finché a un certo punto le spalle si afflosciano. Cassandra si rialza, con le braccia ancora appoggiate alle maniglie, le spalle arrotondate e flosce.
Sbattendo le palpebre veloce, Cassandra fa un passo indietro, poi scrolla leggermente il viso. Senza incrociare lo sguardo di nessun altro, Cassandra guarda il pavimento, i piedi della gente, con le labbra serrate. Il tessuto rigido sul davanti del suo vestito si discosta dai seni senza reggiseno formando un vuoto. Cassandra distende le braccia allontanando il corpo dalla scatola.
Si sfila le scarpe coi tacchi, appoggia i piedi sul pavimento della galleria, e i muscoli delle sue gambe scompaiono. Le due semisfere dure come pietra delle natiche si sgonfiano.
Sul viso ha una maschera di ciocche di capelli.
Se uno è abbastanza alto, riesce a vederle i capezzoli.
Rand dice: «Allora?». Si schiarisce la gola, spingendo fuori il fiato attraverso un lungo rumore di saliva e muco, e dice: «Che cosa hai visto?».
E senza guardare nessuno, con le ciglia che ancora puntano verso il pavimento, Cassandra alza una mano e si sfila gli orecchini.
Rand le porge la borsetta di perline, ma Cassandra non la prende. Anzi, gli consegna gli orecchini.
La signora Clark dice: «Cos'è successo?».
E Cassandra dice: «Andiamo a casa?».
Ascoltano la scatola ticchettare.
Due giorni dopo, si taglia le ciglia. Piazza una valigia aperta in fondo al letto e comincia e riempirla di cose, scarpe e calze e biancheria intima, poi le tira fuori. Fa la valigia e la disfa. Dopo che Cassandra è scomparsa, la valigia è ancora lì. Mezza piena o mezza vuota.
Adesso alla signora Clark non restano altro che gli appunti, quella spessa cartellina piena di appunti su come immagina che funzioni la Scatola degli incubi. Esercita una sorta di ipnosi. Innen'immagine o un'idea. Un flash subliminale. Ti inietta un qualche messaggio nel cervello così profondamente che non è più posibile recuperarlo. Né risolverlo. In questo modo, la scatola ti infetta. Rende tutto ciò che sai sbagliato. Inutile.
All'interno della scatola c'è un qualche dato che non è possibile disimparare. Nuove idee che non si possono dimenticare. Qualche giorno dopo la visita alla galleria d'arte, Cassandra non c'è più.
Il terzo giorno la signora Clark torna in centro. Alla galleria. Con la cartellina di appunti infilata sotto un braccio. " L'ingresso non è chiuso a chiave, e le luci sono spente. Nella luce grigia cne filtra dalle vetrine c'è Rand, seduto per terra su un sottile strato di capelli tagliati. La sua barbetta da diavolo non c'è più. Il grosso orecchino di diamante è scomparso.
La signora Clark dice: «Ha guardato anche lei, vero?».
Il proprietario della galleria rimane immobile, seduto scompostamente, con le gambe larghe sul cemento freddo, fissandosi le mani.
La signora Clark si siede a gambe incrociate sul pavimento accanto a lui e dice: «Dia un'occhiata ai miei appunti». Dice: «Mi dica che ho ragione».
Il funzionamento della Scatola degli incubi, dice, si basa sul fatto che il lato anteriore della scatola è inclinato da una parte. Ti obbliga ad appoggiare l'occhio sinistro sullo spioncino. C'è una piccola lente di vetro a occhio di pesce, incastonata in una cornice d'ottone, come gli spioncini delle porte. L'inclinazione del lato anteriore della scatola fa sì che sia possibile guardare al suo interno soltanto con l'occhio sinistro.
«In questo modo» dice la signora Clark, «ciò che uno vede viene inevitabilmente percepito dall'emisfero destro.»
Qualunque cosa uno veda all'interno, è la parte intuitiva, emo-hva, istintiva della sua persona a percepirlo.
Inoltre può guardare dentro solo una persona alla volta. Ciò che si subisce, lo si subisce da soli. Ciò che accade all'interno del-a Scatola degli incubi, accade soltanto a te. Non puoi condividerlo con nessuno. Non c'è spazio per nessun altro.
Inoltre, la lente a occhio di pesce, dice la signora Clark, defor-ma ciò si vede. Lo distorce.
arancione intorno al collo, dopodiché si è semplicemente... rilassato. Lasciandosi scivolare giù, con la schiena appoggiata al muro. È morto soffocato, quasi seduto sulle piastrelle del pavimento.
Sul banco, nella parte anteriore del negozio, la scatola ha ripreso a ticchettare.
Questa storia, è tutta nella spessa cartellina di appunti di Tess Clark.
È a quel punto che la scatola arriva qui, nella galleria d'arte di Rand. Nel frattempo è diventata una piccola leggenda, spiega Rand alla gente intervenuta. La Scatola degli incubi.
Dall'altra parte della strada, la bottega d'antiquario non è altro che una grande stanza imbiancata, vuota al di là della vetrina che da sulla strada.
Fu esattamente a quel punto, quella sera, che Rand mostrò la scatola a tutti, a Cassandra che si stringeva nel vestito per tenerlo su, fu in quel momento che qualcuno tra il pubblico disse: «Si è fermato».
Il ticchettìo.
Si era fermato.
La gente attese, ascoltando il silenzio, con le orecchie tese a catturare il minimo suono.
E Rand disse: «Accomodatevi».
«Così?» disse Cassandra, e diede alla signora Clark l'alto bicchiere di vino bianco perché glielo reggesse. Sollevò una mano verso una delle maniglie d'ottone. Consegnò a Rand la sua pochette di perline, la minuscola borsetta con dentro il rossetto e gli spiccioli d'emergenza. «È così che si fa?» disse, e alzò l'altra mano per impugnare la seconda maniglia.
«Ora» disse Rand.
La signora Clark, sua madre, rimase lì, un po' impotente con quei due bicchieri di vino in mano, a guardare. Con quegli oggetti che da un momento all'altro potevano versarsi o rompersi.
Rand appoggiò una mano dietro il collo di Cassandra, sulla pelle nuda sotto la nuca coperta da un'unica ciocca riccia, in cima a quella lunga cerniera che le fasciava il culo. Premette in modo da farle inarcare il collo, sollevando leggermente il mento e dischiudendo le labbra. Con una mano appoggiata sul collo di Cassandra e la sua borsetta nell'altra, Rand le disse: «Guarda dentro».
La scatola è silenziosa. Silenziosa come una bomba un attimo prima di saltare. Di esplodere.
Cassandra distende il lato sinistro del viso, solleva il sopracciglio, con le ciglia dell'occhio tremanti, appesantite dal mascara nero spesso. Il suo occhio verde, umido e morbido, qualcosa a metà strada tra un solido e un liquido. Cassandra accosta l'occhio al piccolo vetro, al buio che c'è dentro.
Intorno, la gente. Che aspetta. La mano di Rand ancora appoggiata sul collo.
Un'unghia laccata si avvicina al pulsante e Cassandra, con il viso premuto sul legno nero della scatola, dice: «Mi dica quando».
Per guardare dentro, perché il viso si posi completamente contro la scatola, bisogna ruotarlo leggermente verso destra. Ingobbirsi un po', sporgersi in avanti. Bisogna impugnare le due maniglie, perché quella postura ti fa perdere l'equilibrio. Il peso del corpo deve poggiare contro la scatola, premere tra le mani, in equilibrio sul viso.
Il viso di Cassandra contro gli elaborati angoli e spigoli neri della scatola. Come se la stesse baciando. Il tremore delle ciocche di capelli. Il luccichio in movimento degli orecchini.
Inoltre, dice, le parole incise sulla placca d'ottone - Scatola de-gli incubi - preannunciano la paura. Il nome crea un aspettativa che l'osservatore realizza.
La signora Clark rimane seduta, in attesa di sentirsi dare ragione
Siede lì, aspettando che Rand sbatta le palpebre.
Su di loro incombe la scatola sorretta dal treppiede, ticchettando.
Rand non muove nulla eccetto il petto, per respirare.
Sulla sua scrivania ci sono ancora gli orecchini di Cassandra. La sua borsetta di perline.
«No» dice Rand. Sorride e dice: «Non è così».
Il ticchettìo prosegue il suo conto alla rovescia, riecheggiando forte nel silenzio freddo.
Puoi chiamare gli ospedali, chiedendo se hanno ricoverato una ragazza con gli occhi verdi e senza ciglia. Li puoi chiamare un certo numero di volte, dice la signora Clark, ma poi inevitabilmente smettono di ascoltarti. Ti mettono in attesa. Ti obbligano ad arrenderti.
Alza lo sguardo dallo spesso cumulo di fogli e dice: «Me lo spieghi lei».
Dall'altra parte della strada, la bottega d'antiquariato è ancora vuota.
«Non è ciò che succede» dice Rand. Senza smettere di fissarsi le mani dice: «Ma la sensazione è quella».
Un fine settimana, Rand andò a un picnic aziendale della società per cui lavorava. Odiava quel lavoro. E per fare uno scherzo, invece del cibo si portò un cestino di vimini pieno di colombe addestrate. Per gli altri era solo un cestino da picnic come tanti, l'ennesima insalata di pasta, altro vino. Per tutta la mattina, Rand tenne il cestino coperto con una tovaglia, per fargli ombra e proteggerlo dal calore. Perché le colombe all'interno tacessero.
Di nascosto, diede loro da mangiare briciole di pane. Infilò pez-zettini di polenta nelle fessure del vimini.
Per tutta la mattina, i suoi colleghi bevvero vino o acqua gassata e parlarono di obiettivi di produzione. Di missione aziendale. Di team building motivazionale.
Quando ormai sembrava che avessero sprecato un bel sabato mattina, in quell'istante in cui tutte le chiacchiere di circostanza si esauriscono, Rand dice che fu allora che aprì il cestino.
T a gente. Quella gente che lavorava fianco a fianco tutti i gior-• Che pensava di conoscersi. Quella bufera bianca. Tutto quel ^os esploso dal cuore del picnic. Alcuni gridarono. Ci fu chi cad-, aii'indietro nell'erba. Chi si coprì il viso con le mani. Venne ersato cibo, vino. Vestiti di qualità si macchiarono. Fu un attimo dopo, quando le persone si resero conto che non correvano rischi. Che erano al sicuro. Che era la cosa più bella che avessero mai visto. Indietreggiarono, troppo sbalorditi anche solo per sorridere. Per le infinite ore che durò quell'unico lungo istante dimenticarono tutte le cose importanti e guardarono la nuvola di ali bianche innalzarsi in un turbinìo verso il cielo azzurro.
La guardarono ascendere a spirale. E videro la spirale dischiudersi. E gli uccelli, addestrati da molti viaggi, dirigersi in massa verso quel luogo che sapevano essere la loro vera casa. «Ecco cosa c'è» dice Rand, «dentro la Scatola degli incubi.» Qualcosa che va al di là della vita dopo la morte. Ciò che c'è nella scatola è la prova che ciò che chiamiamo vita non lo è. Che il nostro mondo è un sogno. Infinitamente falso. Un incubo.
Un'occhiata, dice Rand, e la tua vita - i successi, le lotte, le preoccupazioni - tutto quanto perde senso.
Il nipote coperto di scarafaggi, l'antiquario, Cassandra che ne va via nuda e senza sopracciglia. Tutti i problemi e le storie d'amore. Sono un'illusione. «Quello che vedi dentro la scatola» dice Rand, «è un rapido
scorcio della realtà vera.»
Le due persone sedute lì, insieme, sul pavimento della galleria d'arte, con la luce del sole e il rumore della strada che entrano dalle finestre, tutto quanto sembra diverso. Si direbbe un luogo in cui non sono mai stati. È in quel preciso istante che il ticchettìo della scatola si ferma.
E la signora Clark non ha il coraggio di guardare.


«Non tutto quel ch'è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch'è forte non s'aggrinza,

le radici profonde non gelano.
Dalle ceneri rinascerà un fuoco,
L'ombra sprigionerà una scintilla;
Nuova sarà la lama ora rotta,
E re quei ch'è senza corona.»

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Messaggiodi `knives` il 24 dic 2005, 19:32

azz quanto è lunga. divento cieco a leggerla tutta.. lo faccio dopo natale! :)
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Messaggiodi nemesys_72 il 24 dic 2005, 21:53

ho letto le prime 50 righe..
mi sa che lo finisco più tardi..
intanto me lo stampo..
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