Terrore, omicidi e sequestri nel Venezuela di Chavez

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Terrore, omicidi e sequestri nel Venezuela di Chavez

Messaggiodi Aragorn il 14 gen 2009, 14:52

“Azotes uccidono un ottuagenario con trenta pugnalate”. “Trovati due cadaveri in Casalta I. Le vittime sono state strangolate”. “Uccidono un tassista, una giovane madre e i suoi due figli in una strada del barrio El Martirio”.

Titoli come questi, su un quotidiano venezuelano sono la norma di ogni giorno. Ognuno racconta la realtà del suo territorio di riferimento: El Universal, El Nacional e Ultimas Noticias riferiscono quel che accade a Caracas, Panorama quel che accade a Maracaibo, El Tiempo quel che accade a Puerto La Cruz; nessuno si premura di scrivere tutti gli episodi di nera registrati il giorno prima su tutto il territorio nazionale: ci vorrebbe un giornale a parte.

Per farsi un’idea complessiva (citiamo dati della OPS, Organizacion Panamericana para la Salud, ente dipendente dall’Oms): nel 2006, in Venezuela sono stati registrati 12.000 omicidi. Oltre duemila di questi si sono registrati a Caracas, che è così salita sul podio delle città più pericolose dell’America latina con una media di quasi 100 omicidi su 100 mila abitanti (le altre due: Bahia, in Brasile, e Città del Messico). Per fare un paragone: in Canada nel 2006 si sono avuti 0,1 omicidi ogni 100 mila abitanti, a Buenos Aires 3 omicidi ogni 100 mila abitanti.

Le cause? Domanda complicata. La più immediata è l’enorme numero di armi circolanti. Non esistono cifre ufficiali, solo una frase pronunciata l’anno scorso dall’allora ministro dell’Interno Jesse Chacon: oltre sei milioni, tra legali e (parte preponderante) illegali. Ma in molti dicono che sono ben di più. Da dove provengono? In gran parte, sostengono fonti giornalistiche, dagli stessi organi dello Stato: polizia ed esercito. La corruzione è tanto diffusa e le procedure così poco stringenti, si spiega, che spesso, quando viene arrestato un delinquente, l’arma che a questi viene sequestrata non raggiunge il magistrato competente per essere confiscata o distrutta, ma viene rivenduta a chi vuole acquistarla. O ancora, sottrazioni di armi dai depositi militari. Una circostanza dimostrata dal fatto che, nei frequenti assalti ai blindati portavalori, l’arma tradizionalmente impiegata dai malviventi è il FAL, il potente fucile mitragliatore noto a chiunque, in Italia, abbia fatto il servizio militare. O ancora. Tra le poche cose che produce il Venezuela ci sono le munizioni: le fabbrica la CAVIM, stabilimento che sorge nell’esclusivo quartiere caraqueño di Las Mercedes. “Molte volte – riferisce un cronista venezuelano – malviventi sono stati trovati in possesso di munizioni CAVIM”. Il suo sospetto: che a rifornire di armi la malavita venezuelana siano proprio settori corrotti delle istituzioni, i soli – data la dimensione assolutamente micro della criminalità locale – in grado di porsi come referente dei trafficanti d’armi.

Quel che colpisce, della malavita venezuelana, è la gratuità della violenza, di cui ha fatto le spese anche una coppia italiana, aggredita si crede a scopo di rapina in quel di Los Roques nell’ottobre del 2006: lei, Elena Vecoli, venne uccisa; lui, Riccardo Prescendi, venne brutalmente pestato. “Qui non è più: o la borsa o la vita – scrisse l’anno scorso il filosofo italovenezuelano Massimo Desiato – qui adesso prima ti prendono la vita, poi forse ti portano via la borsa”. Una criminalità spesso delirante, che nasce – sostengono alcuni – da un diffuso deficit culturale: “Qui in troppi non credono alla possibilità di risolvere pacificamente un problema. Mi hai urtato l’auto? Te mato. Il tetto di casa tua fa ombra al mio giardino? Te mato”. C’è invece chi indica un problema di possibilità reali: come raccontava una psicologa in servizio di assistenza sociale nell’ultrapopolare quartiere caraqueño di Propatria, quando chiedi a un bambino cosa vuol fare da grande ti risponde: “Il malandro” – così viene chiamato il delinquente che scende dai barrios, le favelas venezuelane, – perché ha la moto e la pistola. C’è chi indica un problema sociale: in Venezuela troppa parte della popolazione non ha un’occupazione, sono vagos (oziosi), una condizione che può dar spazio a comportamenti pericolosi. Problema cui si aggiunge la disintegrazione familiare, con tanti bambini lasciati a loro stessi. E, sullo sfondo, il problema della povertà in cui versa quasi la metà della popolazione, con l’odio sociale che ne deriva.

Quale ne sia la causa, il governo venezuelano non sembra affrontare il problema con il dovuto impegno. Non è stato avviato un piano di disarmo come quello che, a Medellin, portò l’indice delittivo da oltre 180 a meno di 90. Né, nonostante se ne stia parlando ormai da più di un anno, si sta portando avanti una decisa ristrutturazione della polizia, che allontani gli elementi corrotti. Ricordiamo che dietro gli omicidi di Filippo Sindoni, dell’italovenezuelana Rosina Di Brino, del fratelli Faddoul – un caso che ha sconvolto il Venezuela – erano coinvolti poliziotti. Perché questa inerzia? “E’ un problema così grande che non sanno come affrontarlo”, dice una fonte diplomatica. “Il governo non disarma le bande perché alcune di queste sono sue alleate”, dice un giornalista dei quotidiani borghesi.

C’è da dire che anche nello Zulia, governato dal candidato anti-Chávez Rosales, le cose vanno di male in peggio; anche perché la polizia regionale, alle dirette dipendenze del governatore, è tra i corpi di polizia più corrotti del Venezuela. Qui, come in tutta la zona a ridosso della frontiera della Colombia, impazza il flagello dei sequestri: 47 nel solo Zulia, 161 in tutto il Venezuela (ma quelli mai denunciati sono almeno altrettanti), stando solo al 2007, secondo i dati prodotti dalla Fedenaga, l’associazione che riunisce gli allevatori del Paese, di gran lunga la categoria più colpita da questo reato. La comunità italiana, di quelle straniere, è stata la più colpita con 17 sequestri. Il fenomeno, con un numero di casi quadruplicato dal 1998 al 2006, è definitivamente scappato di mano alle autorità, incapaci – dicono gli allevatori – di esercitare un minimo di controllo del territorio, lasciato alle scorribande di guerriglia e paramilitari (dalla Colombia) e della criminalità comune, unitasi al “negocio” dei sequestri dopo aver visto la sua remunerabilità. Negli stati di frontiera, la vita è ben difficile; qui vige il reato della cosiddetta vacuna, letteralmente “vaccino”: si paga la malavita affinché non si abbiano sequestri in famiglia. “Nello stato Apure o nel Táchira sono terrorizzati – ci racconta un giornalista venezolano, – a chiunque faccia domande sui sequestri non dicono nulla. E’ che lì non sai se persino il tuo collega d’ufficio faccia parte o meno di una banda dedita al sequestro”.

Al Parlamento venezuelano è in discussione una legge organica sulla sicurezza, che prevede, oltre alla razionalizzazione dei corpi di polizia, l’introduzione, su suggerimento dell’Italia, del blocco dei beni in caso di sequestro. Un’ipotesi che Fedenaga guarda con terrore: “Qui non funzionerebbe. In Italia ha avuto successo perché c’erano delle istituzioni che funzionavano, dalla polizia alla magistratura. Qui metterebbe a rischio la vita degli ostaggi e fallirebbe, come già ha fallito in Colombia”.


«Non tutto quel ch'è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch'è forte non s'aggrinza,

le radici profonde non gelano.
Dalle ceneri rinascerà un fuoco,
L'ombra sprigionerà una scintilla;
Nuova sarà la lama ora rotta,
E re quei ch'è senza corona.»

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