Il '900 è finito da un pezzo. Le ideologie no

di Raffaele Iannuzzi
Natalino Irti è un filosofo del diritto e non sta ai giochi del politically correct. Dunque, il suo libercolo, La tenaglia. In difesa dell’ideologia politica, (Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 86, € 10,00), vale il prezzo di copertina, che non è poco visto che si tratta di poche decine di pagine e siamo tutti un po’ in bolletta, noi che facciamo questo mestieraccio. Perché questo libretto è suggestivo e vale il prezzo di copertina? Semplice: perché affronta la questione decisiva del nostro tempo, il tabù che va sotto il nome di “fine delle ideologie”.
Da tempo sono convinto che le ideologie non solo non siano finite, ma si siano addirittura moltiplicate, senza avere quella dura scorza drammatica che le rendeva così fieramente novecentesche, ma con Irti ho imparato anche che è cosa buona e giusta che vi siano ideologie. Si tratta di comprendere bene.
L’ideologia è una filosofia che si fa orientamento nel mondo. Così concepita, Marx è fuori gioco e i pensatori deboli della postmodernità possono anche andare in vacanza, dopo aver fatto vacatio con la mente per troppo tempo. A questo livello, sono d’accordo con Irti e, come lui, non ho paura delle parole, casomai la penso come Longanesi: non ho paura delle loro idee, ma delle loro facce. Anche il filosofo del diritto che più ostinatamente si confronta con quell’altra vittima del delirio autoreferenziale della teoremi che si chiama Severino la pensa così, allora siamo in due. La sua formula, per le facce intendo, non è quella longanesiana, ma si rifà a Schmitt e qualche altro peso massimo del pensiero: “pragmatismo acquoso”. Che produce pesci lessi. Gente che tifa per non si sa cosa e quando chiedi loro le ragioni di quanto si addensi nella corteccia prefrontale, ti senti rispondere: dobbiamo agire. Che corrisponde, più o meno, al morettiano “vedo gente e faccio cose”. Attivismo puro che si avvolge e si avvita su se stesso, producendo lo stesso effetto dell’eros senza amore: dopo un po’, sei spossato, ma è solo ginnastica.
Dunque, ha ragione su tutta la linea Irti. Duole doverlo dire, ma i critici delle ideologie hanno messo in piedi un menù senza contorni, tutto primo e secondo, con la frutta e il dessert, ma quando si mangia si vuole anche accompagnare con pietanze a latere, gustose, anche strane, diverse dal solito. Fuor di metafora: abbiamo infilato tutto nel tritacarne, dopo lo spettacolare crollo del muro di Berlino, lasciando da parte tutte le sfumature, cioè quei famosi dettagli che fanno la differenza, e oggi ci troviamo in balìa di un pragmatismo multiculturale, che taluni chiamano “riformismo” e che si nutre di parole, delle sue parole, di un gergo autoctono. Un mondo fatto di indigeni che parlano la stessa lingua, ma non articolano alcuna sintassi. Grammatica del nulla senza sintassi del progetto. Perfetto. Le cose stanno così.
Ma non è tutto. Perché, in realtà, non è uguale a zero definire l’ideologia “falsa coscienza” o totalitarismo di fatto e, parimenti, non è irrilevante connotare l’ideologia come filosofia che orienta l’azione nella storia. Sono due continenti semantici diversi e occorre fare un po’ di filologia. Anche perché, a questo punto, Irti sbaglia. Se è infatti vero, come è vero, che l’ideologia politica possa dirsi in molti modi, non è affatto vero che tutto graviti attorno alla politica, come, estremizzando Schmitt e inserendo dosi massicce di giacobinismo, pensa il filosofo del diritto. E non è vero che dalla “tenaglia” che stringe la politica, tra la tecnocrazia e la clero-crazia si risolva attraverso il recupero di un tèlos, di una finalità capace di orientare la vita e l’azione umane. In primo luogo, perché non è dalla clero-crazia che ci dobbiamo difendere, bensì dal nichilismo che sta inquinando anche la politica. In secondo luogo, perché Benedetto XVI parla di recupero di una “laicità positiva”, come fa Irti, e dunque occorre intendersi; delle due l’una: o siamo laici, ancorché “ideologici”, in quanto proponiamo un progetto positivo per l’umanità o siamo figli della stagione di Porta Pia e della dicotomia amico-nemico di schmittiana memoria, la quale, sia chiaro, non mi scandalizza, anzi mi affascina, ma non per questo la ritengo adeguata alla strutturazione di un discorso sensato sulla laicità.
Qui Irti commette un errore teorico e analitico. La sua sfida ideologico-progettuale viene così a depotenziarsi ed entra nel cortocicircuito semantico heideggeriano e severiniano sulla fine dell’Occidente e il dominio della Tecnica. Dopodiché non se ne esce più e nessuno è in grado di stabilire la verità, anche sul piano storico, perché siamo in piena “zona grigia”. E’ per questo che Severino è inconfutabile, perché la sua strategia filosofico-comunicativa attinge dall’aura sacrale del pensiero per connotare una realtà che esiste ma non può essere assolutizzata senza alcuna discriminante storica. Mixtum compositum.
Le pagine dedicate a questa ricostruzione teorica sono le più deboli. Resta, invece, sul tappeto la sostanza della questione, che divido in due sezioni: a) “Le parole non debbono stupire o intimidire, perché i problemi fondamentali del tempo attendono risposta dal pensiero, e il pensiero vibra e opera in ciascuno di noi” (p. 82); b) “L’ideologia soddisfa il bisogno di tèlos, di uno scopo, che dia fondamento alle molteplici decisioni, e tutte le raccolga e spieghi. (…) Le fedi religiose sono fedi in un fine, che dà senso all’intera storia umana. Anche la politica, la quale voglia rompere l’accerchiamento, ha bisogno di fini” (p. 87). Sarebbe corretto aggiungere, a questo punto, che nessuna ideologia, neanche concepita come filosofia generale della vita, può surrogare la religione e ancor meno la fede come dimensione spirituale e mistica, come una vastissima documentazione filosofica e teologica ha largamente dimostrato, tuttavia, non è il caso di spaccare il capello in quattro. Le questioni ci sono e ad esse dobbiamo dare una risposta. Per fare politica e umanizzare la storia.
Natalino Irti è un filosofo del diritto e non sta ai giochi del politically correct. Dunque, il suo libercolo, La tenaglia. In difesa dell’ideologia politica, (Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 86, € 10,00), vale il prezzo di copertina, che non è poco visto che si tratta di poche decine di pagine e siamo tutti un po’ in bolletta, noi che facciamo questo mestieraccio. Perché questo libretto è suggestivo e vale il prezzo di copertina? Semplice: perché affronta la questione decisiva del nostro tempo, il tabù che va sotto il nome di “fine delle ideologie”.
Da tempo sono convinto che le ideologie non solo non siano finite, ma si siano addirittura moltiplicate, senza avere quella dura scorza drammatica che le rendeva così fieramente novecentesche, ma con Irti ho imparato anche che è cosa buona e giusta che vi siano ideologie. Si tratta di comprendere bene.
L’ideologia è una filosofia che si fa orientamento nel mondo. Così concepita, Marx è fuori gioco e i pensatori deboli della postmodernità possono anche andare in vacanza, dopo aver fatto vacatio con la mente per troppo tempo. A questo livello, sono d’accordo con Irti e, come lui, non ho paura delle parole, casomai la penso come Longanesi: non ho paura delle loro idee, ma delle loro facce. Anche il filosofo del diritto che più ostinatamente si confronta con quell’altra vittima del delirio autoreferenziale della teoremi che si chiama Severino la pensa così, allora siamo in due. La sua formula, per le facce intendo, non è quella longanesiana, ma si rifà a Schmitt e qualche altro peso massimo del pensiero: “pragmatismo acquoso”. Che produce pesci lessi. Gente che tifa per non si sa cosa e quando chiedi loro le ragioni di quanto si addensi nella corteccia prefrontale, ti senti rispondere: dobbiamo agire. Che corrisponde, più o meno, al morettiano “vedo gente e faccio cose”. Attivismo puro che si avvolge e si avvita su se stesso, producendo lo stesso effetto dell’eros senza amore: dopo un po’, sei spossato, ma è solo ginnastica.
Dunque, ha ragione su tutta la linea Irti. Duole doverlo dire, ma i critici delle ideologie hanno messo in piedi un menù senza contorni, tutto primo e secondo, con la frutta e il dessert, ma quando si mangia si vuole anche accompagnare con pietanze a latere, gustose, anche strane, diverse dal solito. Fuor di metafora: abbiamo infilato tutto nel tritacarne, dopo lo spettacolare crollo del muro di Berlino, lasciando da parte tutte le sfumature, cioè quei famosi dettagli che fanno la differenza, e oggi ci troviamo in balìa di un pragmatismo multiculturale, che taluni chiamano “riformismo” e che si nutre di parole, delle sue parole, di un gergo autoctono. Un mondo fatto di indigeni che parlano la stessa lingua, ma non articolano alcuna sintassi. Grammatica del nulla senza sintassi del progetto. Perfetto. Le cose stanno così.
Ma non è tutto. Perché, in realtà, non è uguale a zero definire l’ideologia “falsa coscienza” o totalitarismo di fatto e, parimenti, non è irrilevante connotare l’ideologia come filosofia che orienta l’azione nella storia. Sono due continenti semantici diversi e occorre fare un po’ di filologia. Anche perché, a questo punto, Irti sbaglia. Se è infatti vero, come è vero, che l’ideologia politica possa dirsi in molti modi, non è affatto vero che tutto graviti attorno alla politica, come, estremizzando Schmitt e inserendo dosi massicce di giacobinismo, pensa il filosofo del diritto. E non è vero che dalla “tenaglia” che stringe la politica, tra la tecnocrazia e la clero-crazia si risolva attraverso il recupero di un tèlos, di una finalità capace di orientare la vita e l’azione umane. In primo luogo, perché non è dalla clero-crazia che ci dobbiamo difendere, bensì dal nichilismo che sta inquinando anche la politica. In secondo luogo, perché Benedetto XVI parla di recupero di una “laicità positiva”, come fa Irti, e dunque occorre intendersi; delle due l’una: o siamo laici, ancorché “ideologici”, in quanto proponiamo un progetto positivo per l’umanità o siamo figli della stagione di Porta Pia e della dicotomia amico-nemico di schmittiana memoria, la quale, sia chiaro, non mi scandalizza, anzi mi affascina, ma non per questo la ritengo adeguata alla strutturazione di un discorso sensato sulla laicità.
Qui Irti commette un errore teorico e analitico. La sua sfida ideologico-progettuale viene così a depotenziarsi ed entra nel cortocicircuito semantico heideggeriano e severiniano sulla fine dell’Occidente e il dominio della Tecnica. Dopodiché non se ne esce più e nessuno è in grado di stabilire la verità, anche sul piano storico, perché siamo in piena “zona grigia”. E’ per questo che Severino è inconfutabile, perché la sua strategia filosofico-comunicativa attinge dall’aura sacrale del pensiero per connotare una realtà che esiste ma non può essere assolutizzata senza alcuna discriminante storica. Mixtum compositum.
Le pagine dedicate a questa ricostruzione teorica sono le più deboli. Resta, invece, sul tappeto la sostanza della questione, che divido in due sezioni: a) “Le parole non debbono stupire o intimidire, perché i problemi fondamentali del tempo attendono risposta dal pensiero, e il pensiero vibra e opera in ciascuno di noi” (p. 82); b) “L’ideologia soddisfa il bisogno di tèlos, di uno scopo, che dia fondamento alle molteplici decisioni, e tutte le raccolga e spieghi. (…) Le fedi religiose sono fedi in un fine, che dà senso all’intera storia umana. Anche la politica, la quale voglia rompere l’accerchiamento, ha bisogno di fini” (p. 87). Sarebbe corretto aggiungere, a questo punto, che nessuna ideologia, neanche concepita come filosofia generale della vita, può surrogare la religione e ancor meno la fede come dimensione spirituale e mistica, come una vastissima documentazione filosofica e teologica ha largamente dimostrato, tuttavia, non è il caso di spaccare il capello in quattro. Le questioni ci sono e ad esse dobbiamo dare una risposta. Per fare politica e umanizzare la storia.