Il caro petrolio è insostenibile per il nostro Paese e il nucleare sembra così essere tornato di moda nei programmi elettorali dei partiti. Per cercare di capire quali saranno le eventuali "ricadute economico-sociali" del moderno nucleare abbiamo parlato con Riccardo Casale, esperto di energia e ambiente e membro, tra l'altro, del CdA dell'ENEA.
Forse è davvero una svolta per il nucleare italiano?
È probabile. Pensi che per riavviare il sistema nucleare basterebbero meno di 100 milioni di euro all'anno per cinque anni. Una frazione di quello che stiamo spendendo per i rifiuti in Campania. La decisione spetta ai politici.
Come stanno le cose all'estero?
Anche se l'incidente di Chernobil provocò uno stop in tutto il mondo, oltre 440 centrali hanno continuato a funzionare, producendo energia pulita e ricchezza per chi le ha costruite e gestite. Da poco sono poi ripartiti molti programmi nucleari: la Cina sta fabbricando quattro nuove centrali su licenza Westinghouse (con una importante partecipazione Ansaldo), Finlandia, Romania, Bulgaria stanno realizzando moderni reattori, mentre in Germania si ripensa al piano di uscita dall'atomo.
Un netto cambio dì rotta. A cosa è dovuto secondo lei?
Le centrali hanno dimostrato, nei fatti, di essere sicure. Comparare Chernobil con le centrali occidentali è del tutto mondante. Ma, soprattutto, il maggior rischio è oggi rappresentato dagli impatti dei cambiamenti climatici. Per fare fronte al costante aumento della domanda di energia senza aumentare le emissioni di C02 il contributo nucleare è fondamentale. L'atomo ci accompagnerà nella transizione secolare verso le rinnovabili, l'idrogeno e probabilmente la fusione. Ma, prima di pensare a costruire le centrali, bisogna rimettere in piedi l'intero sistema.
Cosa comporta in definitiva un sistema nucleare in termine di tempi e di investimenti?
Un programma di questo tipo è per forza di lungo periodo, ma è vitale per il Paese. A patto però che esista un approccio politico condiviso. Come detto, servono circa 100 milioni di all'anno per cinque anni. Per prima cosa bisogna finalizzare la fase di decommissioning (i cui costi sono coperti da risorse già stanziate) del pregresso. Poi irrobustire le strutture dell'autorità di controllo e sostenere ì politecnici e le università, ancora depositari dell'immensa conoscenza italiana del settore. E per raggiungere questi obiettivi bastano pochi milioni di euro all'anno. Qualche decina di milioni sono da preventivare per rinforzare la ricerca pubblica e migliorare il trasferimento tecnologico.
Saremo così più competitivi sul mercato globale?
Certo. A fronte di un ricambio generazionale molto vicino vanno aumentati i laureati nel settore dagli attuali 120-130 all'anno (oggi richiestissimi sul mercato mondiale ed italiano) agli oltre 300. Questo permetterà il trasferimento delle competenze e la valorizzazione della nostra miglior risorsa: il capitale umano. Alcuni studi prevedono la costruzione di duecento nuovi reattori nei prossimi 15 anni. Ognuno vale circa 2 miliardi di euro. Il valore globale di queste commesse sarà intorno ai 400 miliardi, l'equivalente, più o meno, di 20 robuste manovre finanziarie. Investire nel sistema nucleare italiano vuol due rendere le aziende nazionali più competitive sul mercato globale e capaci di portare a casa una fetta più consistente di quella torta, con il 3-4% ci saremmo pagati 6-7 centrali. Si innescherebbe un circuito virtuoso che crea molti posti di lavoro ben remunerati e contribuisce ad abbassare il costo dell'energia per cittadini e aziende rendendola anche più sicura in termini ambientali e di approvvigionamento.
A quando allora una nuova centrale?
Difficile fare previsioni. Ipoteticamente la costruzione potrebbe partire 5/6 anni dopo l'avvio obbligatorio e propedeutico del percorso di sistema delineato. La politica e gli esperti dovranno decidere poi se puntare sulle centrali di generazione 3+, o attendere quelle di quarta generazione nel cui sviluppo proprio noi italiani stiamo ottenendo importanti risultati nella ricerca dei promettenti reattori al piombo.