Mentre il fiume di polemiche sulla mancata visita di Benedetto XVI all’Università “La Sapienza” di Roma sembra stemperarsi, presto temi come “libertà d’espressione” e “opinioni altrui” potrebbero tornare alla ribalta della cronaca. Le avvisaglie, già ci sono: anche in questo caso, si inizia a parlare di “boicottaggio” e “contromanifestazioni”. Casus belli non è più il Santo Padre, ma qualcuno molto più avvezzo alla polemica: lo Stato d’Israele. La causa palestinese e il trattamento riservato alla popolazione di Gaza hanno in questa querelle un ruolo indiretto: ad essere messa in discussione, prima di tutto, è infatti la partecipazione di un manipolo di scrittori e intellettuali israeliani alla Fiera del libro di Torino (che si svolgerà dall’8 al 12 maggio 2008).
Tutto ha inizio sul finire del 2007 quando, come da consuetudine, gli organizzatori dell’annuale Fiera del libro hanno presentato la nuova edizione della kermesse letteraria. Tema del 2008 sarà una domanda posta da Dostoevskij, “Ci salverà la bellezza?”: fin qui, tutto bene. La Fiera di Torino, però, ha una felice peculiarità: ogni anno focalizza la sua attenzione sulla scena letteraria di un determinato Paese. Negli anni passati è stata la volta di Stati come Portogallo, Grecia, Canada e Olanda: tutti rappresentati dai loro migliori scrittori e pensatori. Per l’edizione 2008 – e qui sorgono i problemi – il paese ospite sarà lo scomodo, scomodissimo Israele: “In occasione della ricorrenza del 60° anniversario della sua fondazione, Israele ha scelto Torino come la vetrina più adatta per far conoscere e discutere la propria identità culturale. La letteratura israeliana gode da anni di un’attenzione crescente, che si è cristallizzata attorno ai nomi di tre dei suoi maggiori rappresentanti, David Grossman, Amos Oz e Abraham Yehoshua, o a scrittori che appartengono alla generazione successiva, come Etgar Keret” recita il comunicato ufficiale, ricordando come “i temi trattati nelle loro opere hanno assunto una valenza universale, che non riguarda soltanto Israele, ma si pongono come altrettante metafore dei dilemmi e delle contraddizioni che agitano il mondo contemporaneo”.
In apparenza, una splendida iniziativa: la Fiera di Torino darà la possibilità a tutti gli italiani di conoscere da vicino, nel sessantesimo anniversario della sua fondazione, lo Stato di Israele e la sua eccezionale letteratura. Ma c’è un problema: in Italia non si può parlare di Israele – o far parlare Israele – senza invitare anche la controparte palestinese. Non importa che si stia parlando di libri e di letteratura, non importa che Torino non sia il tavolo delle trattative di Annapolis: se un israeliano parla di qualcosa – dai libri alle ricette di cucina –, un palestinese deve poter ribattere.
Le associazioni solidali alla causa palestinese mostrano subito di non gradire. Già a dicembre Forumpalestina lancia l’idea del boicottaggio, da definire nelle sue linee concrete in una riunione prevista ai primi di febbraio. Intanto parte la campagna mediatica, giocata principalmente su internet. Si annunciano defezioni: quella del poeta Aharon Shabtai – “che ha chiesto di essere cancellato dalla lista degli invitati” spiega Forumpalestina “perchè non vuole essere tra gli scrittori rappresentanti Israele” – e quella degli scrittori giordani – riunitisi appositamente per definire una strategia comune.
E poi si discute dei massimi sistemi, cioè dell’opportunità di invitare un simile Stato a una delle maggiori manifestazioni culturali italiane. Sergio Cararo (cofondatore del Forumpalestina) spiega che “a essere contestata è la decisione di dedicare questa edizione ad uno stato come Israele in occasione dei sessanta anni dalla sua nascita, cioè di un evento che nessuno può omettere nelle sue ricadute concrete sui diritti dei palestinesi che la definiscono appunto come Nakba (la catastrofe)”, per di più in un periodo in cui “la politica di oppressione coloniale, di discriminazione razziale e di “politicidio” (per usare le parole di Kemmerling) contro i palestinesi è diventata ancora più spietata e ‘normale’ di quanto lo fosse anni fa”. E se qualcuno – come il democratico Caldarola, per il quale “certa sinistra cova un’avversione per Israele che confina con l'antisemitismo” – prova a difendere la scelta della Fiera, ci pensa Abu Dawood (vicepresidente della comunità palestinese di Roma e del Lazio) a definirlo “l’agente dello stato Razzista e pirata”.
A un livello più istituzionale, la sinistra si divide. Secondo Vincenzo Chieppa (Pdci) Israele si può invitare, a patto però che “si aggiunga come ulteriore ospite d'onore l’Autorità palestinese”. Sempre secondo Caldarola, invece, “ci sono settori della sinistra che considerano interlocutori necessari Hamas ed Hezbollah. Sì, parlo proprio di D’Alema e della sua sbagliatissima equivicinanza”. Lo storico Giovanni De Luna, ex di Lotta Continua, media invece tra le diverse posizioni: “Sono critiche da integralisti, frutto di pregiudizi anche pericolosi. Io sono totalmente dalla parte dei palestinesi. Per questo chiedo che si faccia della presenza di Israele una grande occasione di confronto”. Critiche montanti, alle quali il direttore della Fiera Ernesto Ferrero ha risposto su “La Stampa”: Israele “possiede una libera cultura, che ha dimostrato di saper essere indipendente da condizionamenti governativi” e di questi tempi “l’unica strada che ci resta, in un’epoca segnata dall’ingiustizia e dalla violenza, resta quella del confronto, del dialogo e della ricerca comune”.
Negli ambienti più propensi all’ipotesi del boicottaggio, ha provocato sgomento un editoriale di Valentino Parlato, apparso sul “Manifesto” il 24 gennaio. Già il titolo è eloquente: “Un boicottaggio sbagliato”. La contrarietà di Parlato – che difficilmente potrà essere tacciato come agente sionista – alle misure contro la Fiera del libro si può riassumere in pochi punti. Primo, “il libro va sempre rispettato”. Secondo, “gli israeliani per quanti torti abbiano nei confronti del popolo palestinese non sono in alcun modo paragonabili ai razzisti sudafricani” (come molti fautori del boicottaggio hanno esplicitamente affermato). Terzo, “c'è la storica persecuzione del popolo ebraico, ci sono i ghetti e i campi di sterminio”: e non si tratta di un dettaglio. Quarto, un ricordo: intervistato da Parlato, il rabbino capo di Roma raccontò che “nel ghetto di Varsavia l'ultimo canto che gli ebrei intonarono fu l'Internazionale. Poi furono massacrati dai tedeschi”. "A Torino ci saranno scrittori ebrei di grande levatura con cui discutere, ragionare, polemizzare, difendere i diritti del popolo palestinese”.
Una civile e sacrosanta discussione non dovrebbe essere un problema. Basta dare un’occhiata alla lista degli scrittori israeliani che interverranno a Torino: David Grossman, che ha perso un figlio in Libano ed è tra i maggiori sponsor della pace con i palestinesi; Amos Oz, che non perde occasione per criticare la pratica degli avamposti israeliani in Cisgiordania; Abraham Yehoshua, il cui bestseller “L’amante” è una delle migliori opere sulla convivenza e le diversità. Tra gli storici, poi, Benny Morris: capofila dei nuovi storici israeliani, capace di guardare al Medioriente senza il condizionamento della cultura sionista. Tutti costoro parleranno ben volentieri dei Palestinesi e degli errori compiuti dagli israeliani in tutti questi anni: è quello che fanno in ogni incontro pubblico, è quello che scrivono nei loro libri.