E' stato rivendicato dai talebani l’attentato che sabato mattina a Kabul, durante l’inaugurazione di un ponte, è costato la vita al maresciallo capo Daniele Paladini e ha causato il ferimento di altri tre soldati italiani. Morti anche nove civili afgani, tra cui sei bambini. L’attentatore suicida era stato individuato dai militari e si è fatto esplodere quando gli si sono avvicinati. Sale così a dieci il numero degli italiani morti in Afghanistan. La strage era comunque nell’aria: si tratta del quinto attacco che il nostro contingente subisce nelle ultime due settimane, i precedenti fortunatamente hanno avuto un bilancio molto meno pesante (un solo ferito lievemente al ginocchio).
I servizi d’intelligence riferiscono di una svolta tattica della guerriglia: colpire la cooperazione tra la Nato e la popolazione locale, tra militari e civili, per ostacolare la ricostruzione (che agli afgani dà lavoro sottraendo manodopera ai signori del terrore) e indebolire il governo centrale. Finora talebani e qaedisti avevano ricercato il consenso della popolazione, evitando stragi indiscriminate di civili. Ma con il procedere dell’opera di ricostruzione e stabilizzazione, l’acqua dove nuotava la guerriglia si è andata via via prosciugando. Di qui, il ricorso allo stragismo, con il supporto di jihadisti stranieri (l’autore del massacro in cui è morto Paladini era probabilmente pakistano). Gli obiettivi sono due: fiaccare il fronte interno occidentale per indurne i governi a ritirare le truppe sulla spinta dell’opinione pubblica, e instaurare un clima di terrore nella popolazione in modo da scoraggiarne la collaborazione con le forze straniere. Da questo punto di vista, il contingente italiano rappresenta un bersaglio vulnerabile, poiché è impegnato principalmente nelle attività di ricostruzione. Ma la regia dell’attentato aveva nel mirino i nostri militari anche per un’altra ragione. Attaccare gli italiani, infatti, significa soprattutto toccare un nervo scoperto del governo Prodi, la cui ambiguità rispetto alla missione in Afghanistan e alla guerra al radicalismo islamico e alle sue manifestazioni terroristiche, si ripercuote negli scenari di crisi.
Le forze politiche, alcune sinceramente altre meno, si sono trovate concordi nell’esprimere cordoglio per il sacrificio di Paladini e nell’evitare strumentalizzazioni politiche, con la solita eccezione di Oliviero Diliberto, per nulla stancatosi d’invocare il ritiro delle truppe dal paese.
Anche Prodi, tuttavia, non si è sottratto dal declamare la tiritera preconfezionata sul bisogno “di riflettere su una strategia di lungo periodo con un forte contenuto politico” a uso e consumo del popolo delle primarie.
Se la tentazione di servirsi della morte di Paladini per fare polemiche sterili o di circostanza rimane diffusa, quello che serve è invece tutt’altro. Dal governo ci si aspettava un’analisi seria delle responsabilità dell’accaduto e ciò immancabilmente non è avvenuto. Forse perché lo stesso esecutivo non è esente da colpe. La gestione politica dell’intervento è infatti apparsa costantemente inadeguata, per usare un eufemismo. Prodi, D’Alema e (in misura minore) Parisi, con la persistente demagogia sul cambio di strategia e il rafforzamento della natura civile della missione, le stoccatine per le morti civili provocate dalle operazioni americane, la pantomima per il rinnovo della missione, la riluttanza ad inviare rinforzi, la gestione ‘movimentista’ dei sequestri Mastrogiacomo e Torsello, l’insistenza per la convocazione di una conferenza internazionale cui avrebbero dovuto partecipare pure i talebani (sciocchezza questa che furbescamente D’Alema ha evitato di proferire, lasciando l’onore a Piero Fassino), hanno fatto dell’Italia l’anello politicamente debole dell’Alleanza Atlantica. E ciò di conseguenza, pur non essendo in prima linea e occupandosi di ricostruzione, non ha reso i nostri militari immuni da attacchi, ma all'opposto ne ha fatto un obiettivo strategicamente appetibile per indebolire la forza Nato nel suo complesso.
Non appena al potere, alla chetichella (come nello stile di Parisi e della sua politica del silenzio imposta allo svolgimento delle missioni militari in Afghanistan e Libano) il governo ha provveduto al ritiro dell’Italia da Enduring Freedom, la coalition of the willing messa insieme dall’amministrazione Bush all’indomani dell’11 settembre contro il regime terrorista talebano, e che ha gradualmente ceduto il controllo del territorio alla missione Isaf della Nato, ma che è tuttora presente e attiva in Afghanistan. Un primo ritiro dunque c’è già stato e i talebani stanno cercando di provocare il secondo, con notevole discredito sulla politica estera italiana, che dal 6 dicembre sarà sotto gli occhi di tutta la comunità internazionale perché Isaf passerà proprio sotto comando italiano.